venerdì 23 febbraio 2024

"Perfect Days", dietro l'obiettivo


Ho inseguito i miei giorni perfetti per qualche settimana, fermata da imprevisti a volte piacevoli altre volte meno, fino ad approdare in sala ancorata alla mia poltrona in una calma, invernale, domenica mattina. 

Il cinema è il mio preferito, Anteo, il Palazzo del Cinema di Milano, il film in lingua originale è iniziato da qualche minuto, allora decido di aspettarne ancora dieci, per prepararmi per bene alla visione, in italiano, ma va bene lo stesso (non per il mio amico Paolo che altro non mi aveva raccomandato: "guardalo in lingua originale!"... mi perdonerà). 

Per i film, non leggo opinioni, articoli, né guardo trailer prima della visione, come quando mi appresto ad un nuovo viaggio, amo scoprire la strada vivendola, così è stato anche con la pellicola "Perfect days" di Wim Wenders, sì è dei suoi giorni perfetti che sto parlando. 

Anche le recensioni le leggo a posteriori, cercando di capire se ci sono aspetti del film che mi sono sfuggiti o che ho colto soltanto io, forse sbagliando. Ma in fondo il cinema non sarebbe arte se non provocasse nel pubblico la propria personale interpretazione, anche qui perfetta.

La sala è piena, alcuni solitari come me, molti miei coetanei, sarà una nuova moda ... quella della solitudine?

In fondo è questo che "Perfect days" racconta. La solitudine.

Silenzio in sala, la maschera chiude le tende d'ingresso, luci spente, parte il proiettore.

Inizia il rito cadenzato dalla maestria di luci e ombre che sinuose accompagnano il silenzioso risveglio del protagonista, che scopriremo più avanti chiamarsi Hirayama, grazie al suo buffo giovane e strampalato collega, Takashi.

Al risveglio piega il suo futon sempre nello stesso verso Hirayama, così in apparenza per chi è poco attento. 

I giorni passano infatti apparentemente tutti uguali, tra libri, musica, fotografia e lavoro (mi riconosco). 

La cura mattutina delle piantine, la tuta da lavoro, le chiavi e l'orologio e così ogni piccolo gesto. L'attenzione minuziosa allo sguardo dei passanti, il sorriso nascosto ad osservare le ragazze attraversar la strada, la dolcezza della stretta di mano ad un bambino rinchiusosi nel bagno pubblico dell'area giochi del parco.

Sento i miei vicini di poltrona scandalizzarsi al mancato "grazie" della mamma del bambino, dopo aver ritrovato il figlio al sicuro accanto ad Hirayama. 

Quello che mi ferisce però, più che il mancato grazie, è lo sguardo del protagonista in cui continuo a riconoscermi, in cui riconosco me in ogni gesto, nel rituale estenuante delle mie giornate, come le sue, apparentemente tutte uguali, ma pur sempre accarezzate da luce e ombra, quella luce verso la quale tendo e di cui sento forte il richiamo e quell'ombra in cui trovo ristoro nei molti momenti di stanchezza.

Sì perché il silenzio e la solitudine stancano.

Lo mostra bene Hirayama, rinchiuso in un guscio magico di presenza, "adesso è adesso" insegna alla nipote che sola lo guarda per davvero, la sola che si accorge di uno zio che molti, nelle recensioni, hanno detto aver ritrovato la serenità in questo poetico film, che io invece leggo triste, stanco e maledettamente solo.

Sarà la solita voce fuori dal coro la mia.

Ma essere invisibili e accettarlo, come fa Hirayama, ti costringe alla serenità di chi ha profondamente compreso che l'unico modo di fuggire al dolore della solitudine è prenderne parte, smettere di farci a pugni, è improvvisare una birra con uno sconosciuto che decide di affidarti il segreto della sua malattia, accompagnato dalle luci serali di una Tokyo romantica e deliziosa.

Il caos quasi non esiste, eppure è lì, negli occhi di una sorella così distante e dispiaciuta, nell'abbraccio improvviso di Aya, nella danza persa del senzatetto, nella dolcezza del canto della premurosa oste ... e nei tanti piccoli passi che calcano le strade delle nostre giornate.

Il fatto è che a guardarle dietro l'obiettivo della macchina fotografica, analogica o digitale poco importa, ti accorgi di quanto caos è dentro ognuno, specie in chi è dietro quell'obiettivo a fotografare stupore

"Perfect Days" è poetico, concordo, e come ogni poesia insieme all'invito a riflettere, lascia l'amaro in bocca.


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